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Storie di vita

I bambini capiscono la disabilità meglio degli adulti

Una mamma cieca alle prese con l’emozionante e complesso ruolo di genitore

Sono Raffaella, una mamma cieca, e, come credo accada a tutte le madri, ricordo perfettamente quando è nata la mia bambina: è stato qualcosa di grandioso! Un’emozione enorme. È stato bellissimo prenderla in braccio per la prima volta, poterla toccare, poterla stringere. Ma anche vivere la sua crescita e crescere con lei come genitore.

Uscita dall’ospedale, è iniziata la mia avventura con Lucrezia, un’avventura per me molto positiva, anche perché spesso i bambini sanno relazionarsi con la disabilità meglio degli adulti. Lei ha capito subito qual era la situazione, come doveva comportarsi con me e, già quando aveva nove mesi e le portavano un regalino, al padre lo mostrava, mentre a me lo metteva sulle mani. Quindi devo dire che grosse difficoltà nella sua crescita finora non le ho incontrate.

Ci sono tanti aneddoti che potrei raccontare. Ne ricordo uno in particolare, di quando aveva tre anni. Siamo andati in un centro commerciale io, mio marito, mia figlia e la mia accompagnatrice, per fare degli acquisti. Era aprile, i primi caldi, e io che adoro l’estate e il mare avevo indossato un paio di scarpe aperte. Parcheggiata la macchina, come faccio di solito sono scesa di corsa per togliere Lucrezia dal seggiolino, infilando il piede nell’unica pozzanghera esistente, la mia solita fortuna! Ero stata talmente lesta nel catapultarmi fuori dall’auto che nessuno aveva fatto in tempo ad avvertirmi. Allora la bambina mi dice: «Mamma, è ovvio che hai preso la pozzanghera, nessuno te l’ha detto che c’era!». Gelo totale: la mia accompagnatrice mi ha raccontato di avere oscillato tra il rosso porpora e il viola scuro dalla vergogna. Ho cercato quindi di alleggerire la situazione, spiegandole che ero scesa in fretta e nessuno aveva fatto in tempo ad informarmi. Ma lei, sicura, ha ribattuto: «Resta sempre il fatto che tu l’hai presa perché nessuno te l’ha descritta!». Ha proprio usato la parola descrizione, a tre anni. Ancora adesso la mia accompagnatrice ricorda perfettamente quell’episodio.

Mi torna alla mente anche un altro evento che fa ben capire come lei abbia appreso perfettamente il concetto di disabilità, ossia la presenza di ostacoli o l’assenza di supporti.
Aveva quattro anni e mezzo, le stavo preparando la minestrina e ho tirato fuori dal frigorifero il parmigiano, che a lei è sempre piaciuto tanto. A un certo punto squilla il telefono, rispondo, parlo, ma quando attacco non ricordo più dove ho posato il parmigiano e le chiedo di indicarmelo. Ma lei tranquillamente mi risponde: «No mamma, non te lo dico, perché l’hai posato tu. Se lo avesse posato un’altra persona, te lo avrei detto, perché non avresti potuto saperlo da sola, ma lo hai posato tu quindi lo devi sapere».

Certo, non è sempre facile crescere un figlio non avendo la vista. Ho dovuto fare un grande lavoro su me stessa. Ad esempio, quando stavo con mio marito o con un’altra persona e la mia bambina si allontanava a giocare, ero presa dall’ansia perché non potevo più controllarla. Mancando il contatto fisico o acustico, dovevo fidarmi degli occhi degli altri, e non era una cosa indolore. Però, anche se dentro di me portavo un grosso fardello, non stavo sempre a chiedere dov’era e cosa faceva. Mi imponevo di non domandare, altrimenti lo avrei dovuto fare ogni due secondi, mettendo ansia nelle altre persone e forse limitando anche la vita di mia figlia.

All’inizio, poi, c’erano delle cose che non facevo mai da sola con lei, come uscire, andare a fare una passeggiata o andare a comprare qualcosa. Quindi dove non arrivavo chiedevo aiuto, chiamavo la mia assistente, che pago privatamente, per accompagnarmi. Col tempo, invece, e grazie al lavoro su me stessa, queste cose ho iniziato a farle anche da sola con lei. E devo essere sincera che questo cambiamento ha fatto bene anche a Lucrezia. La sento più aperta, più tranquilla.
Come persona, per la mia esperienza di vita, ho sempre cercato di non diventare un peso per gli altri, e a maggior ragione per mia figlia. Non le chiedevo mai nulla, neanche di raccogliermi da terra un mestolo scivolato dalle mani o di prendermi un mazzo di chiavi. Ma questo lei lo viveva come un rifiuto da parte mia, come se non volessi che mi aiutasse. Adesso, invece, da quando le dico: «Andiamo in quel negozio?», ho notato che non è più la bambina chiusa di prima, e si sente anche libera, in base al momento o a quello che sta facendo, di dirmi: «No mamma, adesso non mi va di accompagnarti». E io in quell’istante sono la persona più felice del mondo, esco da sola con il mio bastone e con la consapevolezza che lei ha deciso in base a quello che le andava o non le andava di fare. Ci siamo liberate entrambe: io dalla paura di esserle di peso e Lucrezia dalla convinzione che non mi fidassi di lei.

Dall’anno scorso abbiamo iniziato anche ad andare al mare da sole e quando si sposta mi avverte: «Mamma vado ai giochi, mamma sto ai giochi, mamma sono tornata», e questo mi tranquillizza.
L’unico cruccio che ho è di non poterla vedere ballare. Ricordo che quando ero incinta mi auguravo che nella vita potesse fare tante belle cose, tutte quelle che le fossero piaciute di più. Tutte, tranne la danza, perché altrimenti me la sarei persa! La immaginavo suonare qualche strumento, cantare, recitare, e invece cosa ha voluto fare? Danza! Quindi ogni volta che prova un nuovo movimento me lo fa toccare. A giugno c’è stato anche il saggio a teatro e io, che davvero non me lo sarei perso per niente al mondo, mi sono fatta descrivere da mio marito ogni più piccolo particolare.

September 2017