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Storie di vita

La creatività deve fare i conti con l’assenza di facilitatori

Un compositore ipovedente è costretto a rinunciare alla sua passione, perché non adeguatamente supportato dalla tecnologia

«Se mi chiedessero qual è la mia indole o per che cosa sono nato, non esiterei a rispondere la musica. Credo di avere la stoffa del compositore, e per un certo periodo di tempo mi ci sono dedicato, ma purtroppo alla fine ho dovuto abbandonare, soprattutto a causa di difficoltà notevoli e crescenti negli anni, che mi hanno portato quasi ad ammalarmi».
Ipovedente dalla nascita, Franco, che oggi ha più di trent’anni, ha manifestato sin da bambino la sua predisposizione per la musica. Intorno ai vent’anni si è diplomato al conservatorio e già da prima aveva iniziato a studiare composizione.

«Comporre - spiega - significa scrivere la musica. E scriverla vuol dire scrivere e cancellare, correggere e riscrivere, scrivere su più parti del foglio e su più fogli idee diverse. È un po’ come progettare, fare lo schizzo di un palazzo. Per fare questo ho sempre sfruttato il mio residuo visivo, anche perché un po’ di anni fa la tecnologia non era così avanzata come adesso, non c’erano software specifici, e per la verità credo non ce ne siano nemmeno ora. Per cui fin tanto che dovevo gestire due righi musicali, ce la facevo ancora: impiegavo più tempo degli altri, ma tutto sommato ci riuscivo. Man mano però che il percorso di composizione andava avanti, questo comportava scrivere su tre, quattro, cinque, dieci, sedici pentagrammi contemporaneamente. Pensiamo ad esempio ad un quartetto: primo violino, secondo violino, viola e violoncello. La musica è scritta su quattro righi che procedono simultaneamente, uno per ogni strumento. Facciamo finta che tu sia la violinista e io il violoncellista; se iniziamo a suonare assieme, guardiamo i primi due righi, tu il primo e io il secondo. Quando però arriviamo alla fine del rigo e dobbiamo andare a capo, tu non puoi passare al rigo sotto, che è quello che stavo seguendo io, ma devi saltare un rigo, e lo stesso devo fare anch’io. Immaginiamo ora questa cosa per un’orchestra di sedici strumenti. Il singolo musicista segue la sua linea, il suo rigo, e al massimo butta un occhio su quello degli altri per vedere cosa stanno combinando; il compositore, invece, deve gestire tutto contemporaneamente, sia in fase di pensiero che di scrittura. E questo significa spostarsi da tutte le parti del foglio, avere una specie di occhio schizofrenico. Visivamente, per me questa cosa è stata impossibile. C’erano sì dei software che mi avrebbero dato la possibilità di scrivere uno spartito, però comporre in maniera creativa è una cosa diversa, perché significa buttare giù schizzi, fare prove, scrivere un’idea musicale e poi cancellarla. Per far capire il livello di difficoltà, è come gestire dieci puzzle contemporaneamente: hai una tesserina e devi chiederti: “Questo pezzo in quale dei dieci puzzle va inserito? Provo qui - ti dici -, ci sta bene. Ah no, sembrava andare, e invece non va bene, devo provare da un’altra parte».

Per Franco il disagio è cresciuto negli anni, ma lui non è riuscito da subito a comprenderne l’origine. «Assieme al mio maestro - racconta - ci siamo resi effettivamente conto del problema solo dopo il quarto anno di composizione. In realtà è stato lui a comprenderlo, io non ero ancora riuscito a capire cosa non andasse. Un giorno mi ha detto: “Senti, tu il lavoro lo fai bene, anzi benissimo, però mi porti un terzo di quello che dovresti e vorrei capire perché. Se non ti dispiace, vorrei che scrivessi insieme a me qui in classe, in modo che io possa vedere cosa succede”. Allora mi sono messo a comporre e lui, dopo trenta secondi, mi ha fermato: “Ho capito - ha detto -, quello che per me è scontato: posare la matita, prendere la gomma, cancellare e riscrivere, per te è una fatica immane”. A quel punto abbiamo provato un nuovo metodo, improntato sulla memoria: scrivevo dei pezzi totalmente a mente e poi li trascrivevo al computer; questo, però, non mi dava la possibilità di gestire pienamente la mia creatività; era un processo troppo ingessato e questo tentativo, che è durato quattro anni, mi ha letteralmente estenuato, perché comportava veramente una grande fatica. Alla fine ero distrutto e ho deciso di lasciare, mio malgrado».

Franco ricorda la grande pesantezza degli ultimi due anni di composizione, la complessità del lavoro e la crisi che ne è derivata. «Io volevo andare avanti - sottolinea -, però non c’erano spiragli, le ho provate davvero tutte, inventandomi addirittura un computer tutto mio. In pratica ho ordinato un pannello tattile dall’America e ho trasformato un monitor normale in un monitor touch screen, che all’epoca non esisteva ancora. L’ho montato sul pianoforte a coda e l’ho configurato, ma poi ho scoperto che non era affatto la soluzione adeguata. Ho speso 1.800 euro per quel marchingegno, ma le tecnologie erano ancora troppo embrionali. Forse, se allora ci fossero stati i tablet, avrei continuato, invece perdevo più tempo a pensare, a fare tentativi, che non a studiare. Ero troppo concentrato sullo strumento e non avevo la possibilità di dedicarmi veramente alla scrittura. Alla fine ho detto basta e in quel momento mi sono ripromesso, da futuro ingegnere, di inventare qualcosa per superare questo problema. Poi, però, è arrivata la tecnologia a migliorarci la vita, anche se non ho ancora trovato una soluzione adatta per un compositore con disabilità visiva».

September 2018