Storie di vita Il peso della solitudine
La storia di vita di una donna sorda: dalle fatiche scolastiche, all’isolamento relazionale, fino alla costruzione di una famiglia, che si è spezzata troppo presto
Sono sorda, uso da sempre le protesi, ma il suono lo capisco solo attraverso il riconoscimento sulle labbra. Mi spiego meglio: se io mi giro e tu parli, sento la tua voce, ma non comprendo le tue parole. Probabilmente, con l’età che avanza e il peggioramento della mia limitazione uditiva, dovrò sottopormi all’operazione per l’impianto cocleare. Mi dicono che dovrebbe garantire ottimi risultati, ma dipende anche molto dalla riabilitazione successiva, quindi si tratta di un percorso un po’ duro e pesante, soprattutto per una donna che da qualche anno ha superato i cinquanta.
Io ho fatto tutte le scuole comuni, quando non esisteva ancora il sostegno. Per fortuna, però, c’era mia mamma, che allora insegnava e mi ha potuto aiutare. Senza di lei, probabilmente, non sarei riuscita a completare il liceo. È stato molto duro e faticoso: per sopperire a quello che mi mancava nell’ascolto delle lezioni, leggevo tanti libri, e non solo testi scolastici. All’università, invece, le cose sono andate sicuramente meglio, perché ero già abituata a studiare di più rispetto agli altri. Il tipico lavoro universitario di ricerca e approfondimento era già parte del mio bagaglio personale. Rispetto ad altri, quindi, mi sono laureata con maggiore successo, ma anche sacrificando molto la mia vita sociale. Lo studio mi assorbiva tantissimo, seguivo tutto il giorno lezioni che non capivo, a volte le registravo e mia mamma mi sbobinava l’audio; all’epoca, infatti, non esisteva l’assistenza allo studio. Se però si esclude il fatto che al momento dell’esame comunicavo ai professori di essere sorda e chiedevo di ripetere le domande che non afferravo, avrei potuto essere una studentessa qualunque: facevo esattamente tutto quello che facevano anche gli altri, ma con molta più fatica. Nel mio percorso di studi non mi hanno mai scontato nulla, anzi dovevo sempre fare qualcosa di più per dimostrare di essere all’altezza. In aggiunta, durante gli anni di studio ho anche sofferto molto di isolamento: l’integrazione con i compagni era parecchio faticosa e più in generale i rapporti con i coetanei non erano affatto facili.
Solo da adulta sono riuscita a recuperare la mia vita sociale, dovendo anche superare le resistenze di una famiglia che mi controllava un po’ troppo, in parte per paura, in parte per proteggermi. Avevo bisogno di uscire, di farmi un gruppo di amici, e fortunatamente ci sono riuscita. Sono persone che sono rimaste nel tempo nella mia vita ed è proprio all’interno di questo gruppo che ho conosciuto quello che sarebbe diventato mio marito.
All’inizio lo detestavo, perché parlava veloce e gesticolava molto, era il classico tipo che attira le folle. Raccontava le barzellette e tutti ridevano, ma io no, perché in realtà non riuscivo a capirlo. Quando invece ci siamo conosciuti più a fondo, ha imparato a parlare più adagio, a gesticolare di meno ed è cambiato moltissimo. Altri, che erano amici allo stesso modo, non hanno fatto questo cambiamento, non hanno compiuto nessuno sforzo per venire incontro alle mie esigenze. E poi, comunque, la gente se ne dimentica: ogni volta devo ripetere le stesse cose, devo sempre stare a chiedere: «Scusa, puoi parlare un po’ più piano?», «Scusa, puoi girarti verso di me?», «Scusa, puoi togliere la mano dalla bocca?». E succede anche con gli amici più cari, che mi conoscono da sempre.
Da ragazza ero sicuramente più forte: spiegavo, chiedevo, a volte pretendevo, ma adesso sono stanca, non riesco più a farlo, mi deprimo facilmente, e forse l’impianto cocleare potrà aiutarmi, non tanto a risolvere la sordità, quanto a togliermi un po’ di fastidio.
Mio marito, purtroppo, è mancato due anni fa. Era un uomo molto in gamba. Aveva un’ipovisione grave, ma ha condotto anche lui una vita assolutamente normale. Lavorava nell’amministrazione di un’azienda ospedaliera, con carichi di responsabilità anche importanti. C’era chi diceva: «Vi siete trovati! Perché tu sei sorda e lui ipovedente!», ma noi non credevamo affatto che fosse così. C’era un’intesa di fondo tra noi, a prescindere dal fatto che avessimo entrambi delle limitazioni sensoriali. Semmai era il modo di intendere la disabilità che ci aveva unito e rafforzato. Eravamo abbastanza contro corrente all’epoca: non chiedevamo niente per noi stessi, eravamo stati educati al senso del dovere.
Io non ho mai lavorato, in senso stretto. Con una laurea in Biologia, ho avuto piccole borse di studio presso un laboratorio ospedaliero. Negli anni ’80 non esistevano concorsi per laureati riservati alle cosiddette categorie protette. Una persona con disabilità poteva al massimo trovare lavoro come usciere, custode o fare fotocopie; io volevo invece un lavoro inerente alla mia formazione universitaria. Poi ho avuto una figlia, e dopo poco ho lasciato anche il laboratorio, dove nell’ultimo anno avevo lavorato gratis. Ho pensato: adesso mi prendo cura della bambina, poi cercherò qualcos’altro.
Quando ho deciso di avere un figlio, non sono stata condizionata dalla paura, perché mi sentivo molto sostenuta da mio marito. Il classico timore che di solito affligge le mamme sorde di non sentire da lontano il pianto del proprio figlio non mi ha turbato più di tanto; usavo quegli apparecchi che servono per controllare i bambini da una stanza all’altra, gli stessi che usano tutte le mamme.
Ho vissuto molto bene la maternità. La gravidanza è stata perfetta. Certo, il parto non è stato affatto una passeggiata, con un cesareo d’urgenza, ma anche in quei momenti mio marito mi ha aiutato moltissimo. Durante il travaglio, se non capivo qualcosa, me lo ripeteva. E nella decisione del taglio cesareo è stato determinante, perché i medici non erano d’accordo tra loro, ma lui è riuscito ad imporsi. È stato un momento davvero difficile, poi però la bambina è nata. Ha fatto subito i controlli relativi alla sordità e il primario di neonatologia ci ha rassicurato dicendo: «State tranquilli, ho fatto tutte le prove empiriche, sente!».
La bambina ha vissuto la nostra disabilità in modo molto naturale, ha capito ben presto che non doveva chiamarmi da una stanza all’altra, ma doveva venire da me e magari toccarmi, perché io sento che entra in una stanza, sento la sua voce, ma non capisco cosa dice; perciò mi devo girare oppure lei deve mettersi di fronte a me.
Con lei la quotidianità era tranquilla, ho sempre fatto tutto da sola e non ho mai avuto grossi problemi. Avevo comunque la possibilità di chiamare qualcuno, nel caso mi servisse aiuto. Abitavamo a due chilometri dalla mia famiglia d’origine e usavamo il fax per parlarci. Avevamo anche il telefono fisso, ma io non posso usarlo, perché non sento. Per cui quando ero da sola in casa e avevo qualche problema mandavo un fax a mia madre, e mio fratello, che ancora abitava in famiglia, prendeva la bicicletta e veniva da me. Poi sono arrivate le tecnologie: prima le e-mail e gli sms, poi la messaggistica istantanea, che mi hanno completamente cambiato la vita.
Oggi mia figlia ha 21 anni, vive con me, fa l’università ed è bravissima. Ha una sensibilità particolare, è molto matura per la sua età, è sempre stata molto più matura dei suoi compagni, perché, avendo avuto l’esperienza di rapportarsi con noi, conosce già gli ostacoli che si possono incontrare sulla strada. Diciamo che le difficoltà vissute fin dall’infanzia l’hanno fatta maturare molto più rapidamente dei coetanei. L’unica tristezza è che il prossimo anno probabilmente si trasferirà in un’altra città per motivi di studio e io rimarrò sola: non ho paura per me, ma la solitudine mi pesa già da adesso.
July 2018